Introduzione

ECOLOGIA, CUCINA E ECONOMIA DOMESTICA: L'INIZIO.

Le azioni quotidiane più semplici, come fare la spesa, cucinare, raccogliere i rifiuti, vengono perlopiù svolte seguendo insegnamenti di ba...

giovedì 27 febbraio 2020

ANANAS

Frutto dalla forma e sapore particolare, quasi un po’ vintage se pensiamo al successo che aveva nella cucina degli anni ’80, dove aveva un grande ruolo decorativo ed era immancabile nelle porzioni di frutta al ristorante, ritorna oggi considerato, anche come bevanda, tra quei frutti miracolosi in grado di compensare alcuni eccessi alimentari.
Vediamo se è vero.

Da dove viene? Quando è periodo di ananas? Come sceglierlo? E’ un consumo sostenibile?
Diamo risposte alle nostre solite domande.

Il nome deriva dal termine indio nana o anana con cui venne conosciuto dagli europei alla conquista del sud America. Gli spagnoli lo chiamarono anche pigna, come una grande pigna, da cui il nome inglese pineapple.
La sua diffusione in Europa avvenne prima in ambiti elitari, con costose coltivazioni in serra, e solo all’inizio del Novecento in maniera più massiva con tecniche di conservazione più efficienti ed un trasporto più rapido.

L’ananas è un frutto tropicale.
I principali produttori di ananas sono il Costa Rica, che da solo esporta oltre il 50% della produzione mondiale, e le Filippine. Seguono Ecuador, Cina e stati africani. Comunque, esistono altri grandi produttori come Hawaii, Brasile, Tailandia e India che però esportano meno perché hanno un ampio mercato interno.
L’ananas è il secondo frutto tropicale più commercializzato al mondo, dopo la banana.
In Italia, nel 2018, oltre il 70% della frutta tropicale importata è rappresentata dalla banana, seguita da ananas, circa 11%, e da altri frutti in quota minore (avocado, mango, papaya, platano..).
Comunque, in tutta Europa si va verso un aumento della richiesta.
Gran parte dell’ananas viene consumato dopo una lavorazione industriale (ananas in scatola, succhi).

Qualche cenno storico. Probabilmente la zona di origine dell’ananas è il Paraguay. Importato in Europa dai conquistadores, ebbe rapido successo sia tra le persone agiate sia per combattere le carenze vitaminiche in nave. Viaggia con il colonialismo in tutti i luoghi tropicali del mondo, dove viene coltivato. Raggiunge le Hawaii, ancora oggi grande produttore, dove all’inizio del Novecento nasce l’industria dell’ananas: l’ananas in scatola.

Questa pagina raccoglie le info essenziali sul frutto. In realtà è una app utile da avere sul telefonino per prendere decisioni sulla frutta e verdura da comprare e soprattutto una volta portata a casa ci tiene a mente il tempo di durata, in frigo o fuori, in modo da non dimenticarcela e magari aiutarci anche nelle ricette.

Come riconoscere e scegliere un buon ananas al punto giusto di maturazione?
Ecco qui la spiegazione. Contano il profumo (un buon profumo, non deve essere inodore), il ciuffo (verde brillante), le estremità (arrotondante) e deve essere sodo. Il colore non è importante.

Quando è periodo di ananas? Come le banane, altro frutto tropicale, le condizioni climatiche fanno si che possa maturare in ogni mese dell’anno.

E veniamo adesso alle rinomate dote dietetiche e salutistiche.
Più volte ho sentito dire che l’ananas ha potere digestivo e anche miracoloso, limitando l’assorbimento dei grassi. Ma è vero? Naturalmente no.
L’ananas è ricco di acqua e poco calorico (circa 40 calorie per 100g). Inoltre, è ricco di vitamina C, sali minerali e fibre.
Contiene bromelina, un principio attivo che se isolato ed assunto come integratore, può avere alcuni effetti benefici anti infiammatori. Non viene negato un contributo del frutto alla digestione.

Però non si può attribuire (purtroppo) alla bromelina la virtù di bruciare i grassi.

La maggior concentrazione di bromelina risiede nel gambo dell’ananas.

L’ananas è la base del famoso cocktail pina colada:

Come si mangia l’ananas? negli anni 80 a barchetta, superdecorativo. Oggi piluccando, naturalmente. Ecco qui le istruzioni:

Come tagliare l’ananas: ecco un chiaro video:

Un affascinante mistero è se l’ananas fosse già noto ai romani. Un affresco a Roma di oltre 2000 anni fa riporta un immagine di frutto estremamente somigliante all’ananas. Refuso di un restauro del passato? Pigna con aghi di pino? oppure realmente i romani conoscevano un frutto di origine sudamericana?

In Scozia esiste una villa a forma di ananas:

L’ananas è una pianta erbacea costituita da lunghe foglie strette e appuntite che produce una sola infruttescenza al centro, per cui impiega circa 1 anno e mezzo.

L’ananas può essere efficacemente coltivato come pianta da interno. Ma non farà frutti:

Con le foglie di ananas, insieme agli scarti di altri frutti, si produce una vera ecopelle:

Ma veniamo ad una delle note dolenti. Quanto è sostenibile l’ananas?
Due gli aspetti fondamentali: il primo è la sua coltivazione, che spesso è di tipo intensivo. E questo può avere un impatto sul mantenimento della foresta pluviale, sull’inquinamento dei territori adiacenti le coltivazione e sulla salute degli agricoltori, in caso di utilizzo significativo di pesticidi:

Peraltro, le condizioni degli agricoltori possono essere difficili e trascurate dal consumatore:

L’orientamento generale, per i frutti di origine tropicale, dove è difficile avere riscontro degli standard di sicurezza del lavoro, di qualità di vita e di rispetto dell’ambiente cui ambiamo, è di preferire prodotti del mercato equo e solidale, biologici e con certificazioni di sostenibilità ambientale:

Possiamo trovare prodotti con certificazioni ambientali sia nel mercato fair trade sia tra le grandi multinazionali:

La voce degli esportatori sulla coltivazione e produzione dell’ananas:

Il secondo aspetto che incide sulla sostenibilità dell’ananas è il trasporto. Il viaggio in Europa avviene per nave o in aereo. I frutti più maturi, più richiesti nei mesi estivi, e più costosi, viaggiano in aereo. E questo ha un impatto ambientale piuttosto significativo. 
Dunque va consumato con moderazione, come un po’ tutta la frutta esotica.

in questa pagina possiamo leggere un articolo sul sito inglese food miles: ci aiuta a tracciare il viaggio dei beni alimentari dal luogo di produzione alla nostra tavola. Una considerazione in più su quanto un frutto esotico debba essere limitato e occasionale nella nostra dieta rispetto ai frutti a km 0.

Bene, credo sia abbastanza su un frutto estremamente interessante, noto sin da quando eravamo bambini, forse conosciuto di più in forma di lavorati che come frutto fresco.

Al prossimo approfondimento.

giovedì 13 febbraio 2020

STILLE DI RACCOLTA DIFFERENZIATA 2. I TAPPI DI BOTTIGLIA

Sono spesso l’ultimo impiccio prima di bere qualcosa di buono, vanno rapidamente nella spazzatura senza considerare il loro destino perché tanto sono così piccoli che magari non vale la pena capire se possono o meno essere riciclati. Eppure, se sommati, in un anno, scopriamo che sono tanti (e pesanti). E’ importante quindi smistarli bene nella raccolta differenziata.
Vediamo per vario tipo dove devono essere gettati:

tappi in sughero
Sono i tappi tradizionali delle bottiglie di vino e di spumante. Considerati pregiati, consentono di poter invecchiare a lungo i vini lasciando traspirare. A volte possono essere attaccati da microorganismi e danneggiare il vino (quando sa di tappo).
In Italia vengono largamente utilizzati per il vino. In particolare, è raro trovare una bottiglia di pregio che non abbia un tappo di sughero. Nonostante il potenziale problema del sapore di tappo.

Le alternative maggiori sono i tappi in finto sughero (di plastica) oppure in plastica rigida chiara, opzioni che in genere vengono sfruttate la prima da cantine più moderne e per vini di larga diffusione, la seconda decisamente per vini di categoria inferiore.
Il tappo a vite invece rappresenta l’opzione più seguita anche da produttori importanti per vini di elevata qualità ed è diffuso nel resto del mondo ed in Europa perlopiù nei luoghi meno tradizionali (escludendo quindi Italia, Francia, Spagna).

Essenzialmente, il sughero ha consentito oggi di poter conservare vini pregiati per decenni. Inoltre ha più fascino.
Eppure, sono pochi a conservare le bottiglie di vino in cantina a condizioni idonee di temperatura e umidità per anni, tale da giustificare la necessità di utilizzo di questo materiale.

ad ogni modo, dove si butta?
per ASIA Napoli il tappo di sughero va nella raccolta dell’umido / frazione organica.

E questo è dovuto al fatto che si tratta di un materiale organico facilmente compostabile.

Il sughero però è riciclabile. Esistono numerosi oggetti in sughero riciclato. E’ un materiale utilizzabile nell’edilizia. 
Inoltre, la quercia da sughero, tipica del Mediterraneo, impiega decenni prima di consentirne la sua raccolta dalla corteccia. Non va sprecato.
Eppure la sua raccolta sfugge ai sistemi di raccolta della nettezza urbana. Grazie ad alcune iniziative di privati esistono dei punti di conferimento: Cooperativa Arti e Mestieri, associazione A Braccia Aperte, associazione Tappo di vino, Amorim Cork.
Alle pagine seguenti potete trovare riferimenti per la raccolta in varie città italiane (principalmente nel Nord Italia). Vi aggiorno appena ottengo informazioni per Napoli.

tappi in sughero finto (plastica)
Questo tipo di tappo è discretamente diffuso in Italia per tappare le bottiglie di vino. Viene in genere utilizzato da cantine di grandi dimensioni, per prodotti a costo non elevato. E’ un materiale che consente una ottima conservazione del vino nel breve periodo e soprattutto non può alterare il vino (non può crescere su questo tappo la muffa che colonizza il sughero). 
Si riconosce rispetto al sughero per la tessitura più compatta, il colore omogeneo, l’assenza di friabilità. La faccia a contatto col vino non è macchiata.
E’ prodotto in plastica ed è parte di un imballaggio, va quindi conferito nella plastica. Non sempre però viene prodotto in uno dei polimeri a più facile riciclaggio.

tappi a vite
Al di fuori dei paesi più tradizionali per il vino, come il nostro, è largo l’utilizzo di tappare il vino con il tappo a vite. Si tratta in genere di un tappo in alluminio che si avvita sulla bottiglia. E’ comodo il fatto che non serva un cavatappi per aprirlo. In Italia è di uso frequente nelle bottiglie che vengono aperte e richiuse più volte prima di esaurirne il contenuto, ad esempio le bottiglie di olio e di aceto. Lo si può trovare anche in alcune bottiglie di acqua in vetro.
Poiché il materiale di cui è costituito è alluminio, esso è interamente riciclabile nella raccolta dei metalli o multimateriale.

Si stima che in Italia solo il 50% dei tappi di alluminio venga effettivamente avviato alla raccolta differenziata. Bisogna quindi impegnarsi di più perché non sia gettato attaccato alla bottiglia, come spesso avviene, poiché se ne trascura la sua importanza nel riciclo.

tappi a capsula
Le bottiglie delle passate di pomodoro, le bottiglie in vetro di alcune marche di latte. Soprattutto, i barattoli delle marmellate, delle conserve.
Il tappo a capsula è un tappo con una quota importante di ferro o alluminio e quindi va destinato alla raccolta differenziata dei metalli.

Alcuni di questi tappi sono flip (o clic clac): è una tecnologia venuta negli anni 80 che consente di verificare che il barattolo non è stato manomesso dopo la chiusura avvenuta nello stabilimento. Bisogna premere al centro e non si deve avere riscontro di un suono o movimento di ritorno. Una volta aperto, se richiuso farà sempre un suono o movimento di ritorno dopo aver premuto al centro (clic clac).  

tappi a macchinetta o meccanici
E’ un tappo presente sulle bottiglie di acqua a rendere, quelle che si riempiono in casa e si mettono in frigo. Ha una certa diffusione nel mondo delle bottiglie di birra.
Il tappo è ancorato con delle fascette metalliche al collo della bottiglia, ed è costituito da un corpo in plastica o porcellana con una guarnizione.
Ottimo per i vuoti che si riusano, diventa difficile da riciclare una volta che va nella spazzatura. Va staccato dalla bottiglia, anche per consentirne il riciclo del vetro, e separate le parti metalliche (riciclabili) dal resto, che va nell’indifferenziato.

tappi a corona
Sono i classici tappi delle bottiglie di birra, di cola e tante altre bevande in vetro. Al sud inoltre tappano le conserve di pomodoro fatte in casa.
In genere non sono richiudibili una volta aperti.
Anche questi sono in alluminio e quindi perfettamente riciclabili come i tappi a vite.

tappi in plastica
Molto diffusi, tappano le bottiglie di plastica sia di bevande che di altri liquidi.
In genere sono in polietilene (PE) a alta densità (HDPE) (plastica numero 2), oppure in polipropilene (PP) (plastica numero 5).
Vanno quindi conferite nella plastica ed esiste una buona probabilità che vengano realmente riciclati.

Pare sia meglio lasciare il tappo attaccato alla bottiglia per favorirne il riciclo.

In passato ricordo di raccolte tappi finalizzate a progetti benefici, per cui si raccoglievano a parte. Ecco qualche fonte in proposito. Oggi è meno frequente imbattersi in queste iniziative.

E qui invece il riciclo creativo: come costruire oggetti, arredi e tanto altro con i tappi di plastica. Del resto sono mattoncini regolari e colorati, resistenti.

tappi in vetro
Di tanto in tanto è possibile incontrare una bottiglia di vino con un tappo in vetro. Si tratta di una scelta di maggior costo. La cosa migliore che posso suggerire è di conservarli, perché si adattano bene ad altre bottiglie e quindi sono un comodo tappo da riutilizzare numerose volte.
Poiché il riciclo del vetro è piuttosto selettivo (non si riciclano tutti gli oggetti perché sono in vetro ma solo le bottiglie e pochi altri), anche se non sono riuscito a trovare una fonte precisa credo che il loro destino sia comunque il secco indifferenziato (come i bicchieri in vetro rotti).



Bene, è tutto sul riciclo dei tappi.
Nel rimandarvi alla prossima stilla, vi lascio due ultime curiosità sul tappo di sughero.

Come si valuta la qualità di un tappo?

E cosa fare se il vino sa di tappo?

giovedì 6 febbraio 2020

FEBBRAIO 2020

frutta: arance (in particolare varianti Sanguinello, Sanguigno, a polpa rossa), mandarini, mandaranci, kumquat, pompelmo, pompelmo rosa, limone, kiwi, mele, mela annurca, pere, avocado (Sicilia e Mediterraneo).
frutta esotica: banane, mango, ananas.

verdura: cardi, cavoli, cavolfiore, cavolini di Bruxelles, cavolo cappuccio, broccoli, carote, pastinaca, porri, ravanelli, scalogni, mizuna (senape giapponese), rafano nero, finocchio, cicoria, songino, indivia, erbette, topinambur, spinaci, carciofi, sedano rapa, sedano, radicchio, puntarelle, barbabietole, rape, scorzonera.
funghi: marzuolo.

pesce, frutti di mare pescato (Mediterraneo): vongole selvatiche o lupini o arselle, boga, cefalo o muggine, costardella, lampuga, menola, mormora, occhiata, pagello bastardo e pagello fragolino, palamita, pesce sciabola o bandiera o lama, sarago, sgombro, sugarello, tombarello, tonnetto striato, tonno alletterato, zerro, ombrina.
pesce di acque dolci Europee di allevamento o pescato: coregone o lavarello (allevamento), trota salmerino e trota iridea o americana e trota fario (allevamento), persico (Europa), storione (SOLO allevamento).
pesce, frutti di mare da allevamento: capesante (nord Atlantico), cozze (Mediterraneo), gambero imperiale o mazzancolla (Mediterraneo), ostrica (Mediterraneo e Atlantico), rombo chiodato (Mediterraneo e Atlantico), vongole (Adriatico, Mediterraneo).
pesce, frutti di mare pescato o di allevamento da consumare con moderazione (certificazioni MSC ASC o pesca tradizionale locale): acciuga o alice (piccola pesca costiera o MSC): branzino o spigola (allevamento ASC), orata (allevamento ASC), sardina (piccola pesca costiera o MSC), tilapia (allevamento USA o Europa), triglia (piccola pesca tradizionale), gambero o gamberetto (Mediterraneo e nord Atlantico), pagro (Mediterraneo), polpo (Mediterraneo e Atlantico), ricciola (Mediterraneo e Atlantico), scampi (Mediterraneo e Atlantico), seppie (Mediterraneo e Atlantico), totano (Mediterraneo e Atlantico), calamaro.

sabato 1 febbraio 2020

CAFFE’

Carissimi, continuando la nostra ricerca sui vecchi “coloniali”, dopo zucchero e cacao è arrivato il momento del caffè.
E’ uno degli argomenti più estesi finora affrontati: si trovano, in rete, centinaia di pagine che parlano della storia del caffè e delle sue caratteristiche, ma anche altrettanti siti di commercianti che offrono la loro visione e i loro prodotti.

Lo spirito con cui ho affrontato questo approfondimento è stato quello più vicino possibile allo scopo del blog: sapere, quando beviamo una tazzina di caffè, da dove viene quel prodotto, cosa realmente incide sulla sua bontà e qualità, per noi, per chi lo produce e se l’impatto ambientale è sostenibile oppure no.

E poi, qualche nota di curiosità per una storia così ricca e una eterogeneità ancora oggi così vasta, per noi italiani l’espresso e la moka, per i turchi e i nordeuropei tutt’altro, per non parlare degli asiatici.
Eppure, la caffetteria è un nome tutto italiano nel mondo: cappuccino, espresso e storpiature varie inesistenti qui di noi (choppuccino, frappuccino et al.) parlano italiano ovunque.
Inoltre, fa bene o fa male?
Vediamolo.

Partiamo dalla vita quotidiana.
A casa, appena svegliati. A lavoro, durante la mattinata, con i colleghi. Al bar, dopo pranzo, o a un incontro, nel pomeriggio. C’è chi lo beve anche la sera, dopo cena.
La grande maggioranza degli italiani beve ogni giorno 2 o 3 caffè. Da soli o in compagnia.

In Europa il maggior consumo di caffè pro capite è un primato dei paesi scandinavi e della Finlandia in particolare.
Vero è anche che il caffè filtrato, tipico dell’Europa del nord e continentale, necessita di una maggiore quantità di caffè rispetto all’espresso per ogni tazza.

Ma quanto caffè serve per consentire a tutti noi di berne così spesso?
Quasi 160 milioni di sacchi di caffè (pari a 10 milioni di tonnellate) al mondo sono state prodotti nella precedente stagione. L’Italia da sola ne consuma circa 9 milioni di sacchi.

Il caffè, dopo il petrolio, rappresenta il bene più commerciato al mondo.
Praticamente ogni parte del pianeta importa e consuma caffè.

Il caffè viene coltivato nella fascia equatoriale della Terra: centro e sud America, Africa, Asia e Oceania.
A queste pagine leggiamo, stato per stato, le quantità prodotte e le peculiarità qualitative e quantitative che li caratterizza:

Il Vietnam è oggi il secondo produttore mondiale di caffè (dopo il Brasile e prima della Colombia).
La recente ascesa asiatica nella produzione (e nel consumo) di caffè è bene descritta qui:

L’origine storica della pianta di caffè è l’Etiopia, più precisamente la regione di Kaffa.
Tra tante leggende sulla sua scoperta, la diffusione avviene nel mondo arabo a partire dall’anno 1000 (importante per la sua circolazione la città di Moka in Yemen).
Ma l’espansione planetaria avviene grazie alla sua popolarità in Europa, quando negli anni a seguire del Seicento, con il colonialismo, la coltivazione si estende al Sudamerica e all’Asia, fino a raggiungere, nel Novecento, la diffusione attuale.
Appartiene alla storia degli ultimi 50 anni invece la popolarità raggiunta, nel consumo, nelle popolazioni dell’estremo oriente. 
Di tante varietà selvatiche esistenti tuttora nella zona di origine, essenzialmente sono solo 2 quelle coltivate in tutto il mondo e con valore commerciale: Arabica e Robusta.

Arabica è la qualità di caffè più coltivata, considerata più pregiata. Si caratterizza per un gusto più delicato, meno amaro rispetto alla Robusta, che invece è più forte e corposa, contiene più caffeina. Inoltre, la Robusta è una pianta più resistente e facile da coltivare.

Ma spesso è una miscela di entrambe quella che beviamo, magari proveniente da più coltivazioni, perché meglio si adatta ai nostri gusti. Ecco perché chiamiamo anche miscela il caffè macinato e pronto per la caffettiera.

Esistono molte altre varietà di caffè meno usuali per le nostre abitudini ma anche molto pregiate. 

Addirittura, tra le più pregiate (e costose) viene considerata la Kopi Luwak dell’Indonesia. Le bacche di questa varietà vengono ingerite e defecate da un piccolo mammifero, lo zibetto comune delle palme, e poi raccolte e lavorate. Analogamente, il Black Ivory, dalla digestione di elefanti in Tailandia. Io non li berrei, e non solo per il prezzo, ma per il bisogno di allevare questi animali costringendoli ad alimentarsi principalmente di bacche di caffè.

Tornando alla coltivazione tradizionale della pianta di caffè, la bacca matura, una volta raccolta, operazione spesso da farsi manualmente, appare di colore rossastro e deve essere aperta per raggiungere il chicco, che appare di colore verde. Questa operazione può essere effettuata al sole, attendendo per alcuni giorni, oppure in acqua meccanicamente, più rapida.
Il chicco verde deve essere tostato (torrefazione), operazione in cui raggiunge il colore e l’aspetto a tutti noto, e poi macinato.

La produzione mondiale del caffè ha delle variazioni anno per anno ma negli ultimi 2 anni ha teso a superare la domanda, determinando variazioni importanti nel prezzo (ribassi) con ripercussioni su una vasta filiera di produttori piccoli, medi e grandi:

Il costo del caffè al dettaglio non riflette il costo in produzione. Ad una lenta e progressiva diminuzione del costo al kilo, nei nostri bar non è corrisposta una diminuzione del prezzo per espresso, anzi un aumento. Ciò naturalmente perché ad aumentare sono stati i costi di gestione dell’esercizio.
E’ anche vero però che si tratta di una filiera (la più grande al mondo) dove un vasto insieme di piccoli produttori ha poco potere contrattuale verso l’industria di caffè, che fa da intermediaria e trasforma il prodotto rendendolo fruibile per il consumo (e che con la selezione dei chicchi e la trasformazione lo rende un prodotto adatto ai diversi gusti, per cui vi sono così tante differenze tra una marca e l'altra). 

Ma quanto è sostenibile il consumo del caffè?
La coltivazione del caffè si divide in forme di tipo tradizionale, con piante in crescita all’ombra, in un contesto utile a preservare un ambiente naturale che protegge da insetti e erosione del terreno la coltivazione, e in forme di coltivazioni intensive, in pieno sole, con vaste piantagioni ed impiego maggiore di pesticidi e di acqua.
Conoscere la fonte del caffè che si beve, sia come luogo del mondo, sia come tipo di coltivazione, dovrebbe quindi essere un parametro che ci aiuta a scegliere il prodotto che preferiamo. Ma significa accedere a informazioni che spesso mancano nelle confezioni in vendita. 

Gran parte della produzione di caffè del mondo avviene ad opera di piccole imprese agricole. Per alcuni nazioni, il commercio del caffè è una delle principali voci dell’economia. Ma è anche importante che ci sia una sostenibilità ambientale. 
Tra le principali certificazioni di sostenibilità del caffè vi sono: 4C Coffee association, Fairtrade Max Havelaar, Rainforest Alliance, UTZ, Smithsonian Migratory Bird Center.

Qual è allora il caffè più sostenibile?
C’è una differenza importante tra quello della moka, dell’espresso, le cialde, le capsule o il filtrato?

in quest’articolo del fatto alimentare leggiamo che, in termini di sostenibilità ambientale, a fare la differenza è più l’origine del caffè che la modalità in cui lo si prepara (moka, filtro, capsule o espresso).
Utile quindi scegliere un caffè certificato, ecologico e sostenibile.

Lisa Casali indica che i marchio BIO e Fair Trade possono aiutarci nella scelta, ma anche verificare sul sito dell’azienda produttrice che scelte concrete vengono effettuate.

D’altra parte, il problema della sostenibilità è reale. Il cambiamento climatico minaccia le coltivazioni di caffè. Quest’articolo di Riusa commenta un approfondito studio che ipotizza, per l’Etiopia, patria della biodiversità del caffè, una perdita di uso di circa il 40% del territorio dove attualmente cresce il caffè per il 2040 a causa dei cambiamenti climatici.

Ma un ulteriore grave problema ambientale sono le coltivazioni illecite che determinano disboscamento di foresta persino nei parchi naturali:

Di seguito due documenti che descrivono la produzione agricola del caffè e le problematiche connesse.
La prima fonte esprime la posizione del piccolo coltivatore del Guatemala, che soffre l’agguerrita concorrenza mondiale e le importanti fluttuazioni del prezzo, per cui un piccolo ribasso può rappresentare una perdita enorme.
Si pone attenzione sulla necessità di conoscere la filiera del caffè che si beve e di verificarne il rispetto delle condizioni di lavoro del produttore. Cosa che i prodotti del mercato equo possono garantire.
La seconda fonte invece è della Nestle. Anche qui si analizza il problema della difficoltà per il piccolo produttore di avere un adeguato margine di guadagno. Il problema è la produzione che supera la domanda. Si pone l’attenzione sugli eccessivi incentivi alla produzione di caffè. La scelta di un prodotto maggiormente pregiato può garantire una maggiore opportunità per i coltivatori ed un maggiore rispetto ambientale.

E vediamo adesso la pianta di caffè. Anche se le coltivazioni si trovano nella fascia tropicale del pianeta (entro 30° di parallelo dall’equatore) e in montagna, possiamo facilmente coltivarne a scopo ornamentale (anche io ne ho una). Teme però il freddo e il caldo del nostro clima, e per questo sta meglio in casa.

Adesso un po’ di salute: quanti caffè si possono bere al giorno? 
Prima considerazione, è la caffeina la sostanza a cui si deve fare attenzione, che se assunta in eccesso può dare disturbi o fare male.
I diversi modi di preparare il caffè ne fanno variare la sua concentrazione: una tazza di caffè americano contiene più caffeina di una tazza di caffè da moka che ne contiene più di una tazza di caffè espresso da bar. Grosso modo, una bella tazza da moka ne contiene fino a 100 milligrammi.
La dose media quotidiana al giorno da non superare può essere intorno ai 300-400mg. Come dire 3 tazzine di caffè moka al giorno.

Bisogna però badare anche alle altre fonti di caffeina: tè, cioccolato, bevande analcoliche, integratori, farmaci.

Attenzione a bambini, adolescenti, donne incinte. In questi casi il limite scende (massimo 1-2 tazzine).

Sembra comunque, per la caffeina come per tante altre sostanze, che un basso consumo faccia anche bene, o meglio coloro i quali ne fanno basso consumo sono meno inclini a sviluppare patologie degenerative cerebrali.

Curiosità

La parola caffè può derivare sia dal termine arabo qahwa che identifica oggi il caffè in arabo ma che può significare anche vino, liquore, sia dalla regione Caffa, in Etiopia, dove era molto diffusa la pianta del caffè allo stato spontaneo.

Come si è diffuso il caffè in Turchia, il suo significato e le modalità di preparazione del caffè turco:

E’ attraverso l’impero ottomano che il caffè arriva in Europa, a Venezia e a Vienna:

Sull’arrivo del caffè a Napoli. Tante leggende e date diverse, ma la grande diffusione avvenne all’inizio dell’Ottocento.

Belle fonti e una bell’articolo sulla storia del caffè si trovano a questa pagina di Repubblica:

La macchina Espresso da bar nasce a Torino nel 1884; la moka nel 1933, grazie ad Alfonso Bialetti. E prima? Nelle case si usava la caffettiera Napoletana, nata a Parigi nel 1819. Ai link successivi leggiamo le evoluzioni che ha avuto la macchina espresso da bar ed il cambiare delle abitudini degli italiani verso il caffè nel corso del Novecento.  

Caffetterie storiche d’Europa: Budapest, Praga, Parigi, Vienna ed altre città europee:

e d’Italia: Napoli, Roma, Pisa, Firenze, Torino, Venezia, Trieste, Padova.

Una bella storia delle caffetteria napoletane più belle dell’inizio del Novecento. Solo Gambrinus è sopravvissuta.

Qui fonti su come si è diffuso e come si beve il caffè nel mondo.

Istruzioni per fare un buon caffè con la moka secondo il chimico Dario Bressanini:

Il rito del caffè a Napoli secondo Luciano Pignataro:

Cosa fare con la posa del caffè: concime per piante, sgrassatore, profumo per ambiente e per frigorifero. Allontana le formiche e le lumache.